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UN ROMANZO DI FABIO GIMIGNANI
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Brossura, 76 pagine. Prezzo € 10,00
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Beirut, 1986.
A vent’anni non è giusto girare il mondo con un mitragliatore carico in spalla.
È ciò che pensa il protagonista, trovandosi a fronteggiare il suo divenire uomo nel modo più brusco e inevitabile che sia dato immaginare. Giunto in Libano come parte di un contingente italiano non meglio definito dagli accordi internazionali, il giovane sergente si ritrova a galleggiare in una realtà rarefatta in cui non c’è niente di concreto, tranne un regolamento assurdo creato da burocrati oscuri ed applicato da altrettanto oscuri ufficiali in una Beirut dilaniata dalla guerra e pronta a ghermire chiunque abbassi la guardia anche solo per un istante.
E poi c’è Roumieh: un carcere arroccato sulla collina che sovrasta la città, dove anche la propria ombra diventa un nemico in agguato.

Capitolo 1

Beirut.

Nonostante sia qui da ventidue giorni continuo a domandarmi cosa cazzo ci sto facendo a Beirut.

Che poi “la valle dei cedri”... forse una volta c'erano, ma adesso se mi giro intorno vedo solo macerie, polvere, disperazione e gente che mi guarda come se il responsabile di tutto fossi proprio io. Ma io non li ho buttati giù i vostri maledetti cedri.

Così come non ho ridotto le vostre case a un'accozzaglia di calcinacci e muri pericolanti.

Io non c'entro niente.

Qui non volevo nemmeno venirci!

Ventidue giorni.

Ventidue schifosi giorni alternati a ventidue notti nelle quali avrò chiuso occhio sì e no due ore, sempre sul chi vive nonostante ci stiano rincretinendo di chiacchiere sulla sicurezza dei nostri alloggi e su quanto la nostra presenza in questo posto sia ben vista dai locali.

Stronzate!

Perché non ci raccontano cosa sono quei buchi sul muro perimetrale esterno, o pensano che non siamo in grado di distinguere la tana di un geco dal foro di proiettile di un AK-47?

Ma va tutto bene, secondo loro.

E certo! Tanto tutti i giorni fuori, nel mezzo al nulla, per il giro di pattugliamento ci andiamo noi, mica loro!

E poi attenzione a non chiamarlo “pattugliamento”! Sarebbe roba da militari, e noi siamo qui come... come cosa?

Non siamo Esercito: l'Esercito ha lasciato il Libano due anni fa, nel 1984 in seguito a trattati di cui non conosco il nome e il contenuto, per quello che me ne potrebbe fregare e per quello che me ne fregava all'epoca, quando facevo ancora l'ultimo anno di liceo e pensavo solo a come sfangare la maturità e a come scopare tutto quello che mi passava davanti.

Non siamo una Forza di Pace: per quello ci sono i Caschi Blu dell'ONU, che ci guardano dall'alto in basso come se fossimo i parenti poveri al pranzo di Natale... e poi nelle zone più a rischio chi ci va? Mica quegli stronzi strapagati.

Ci andiamo noi o quegli altri stupidi dei Marines americani... sempre pronti a farsi spaccare il culo per conto di chi, il giorno dopo, li coprirà di insulti.

Non siamo mercenari: le stellette cucite sul collo della mimetica e il tricolore che portiamo sulla spalla e sulla pattina della tasca frontale ci privano anche di questo titolo e dei proventi che potremmo ricavarne. Però il tricolore non fa di noi l'Esercito Italiano, anche se ne indossiamo l'uniforme e ne guidiamo i mezzi; non ufficialmente, almeno.

In poche parole siamo un gruppo di stronzi catapultati nel bel mezzo di un conflitto sotterraneo combattuto da persone che non conosciamo per difendere o imporre idee delle quali non ci frega niente, comandati da ufficiali che non dovrebbero essere qui.

Fantasmi.

Siamo fantasmi in una terra che ne ospita e ne ospiterà fin troppi, a partire da quelli dei cedri che, mi dicono, una volta riempivano questi paraggi...

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